"Amen", di Chiara Mutti, letto da Valerio Mattei

 

 

Istanti. Istantanee. Flash. A volte abbaglianti, altre enigmatici, mistici addirittura. La fronte si aggrotta, poi si distende, il viso si compenetra ora in misteri appena evocati, ora invece si illumina in un sorriso di tenerezza, di compassione. Tutto mentre le righe scaturite, zampillate dal cuore infinito e dallo sguardo profondo e acuto dell’autrice Chiara Mutti nel suo “Amen” (EdiLet, 2023, pp. 80, Euro 13) ti inchiodano anima e corpo alla pagina come solo i Maestri sanno fare.

 

Come lo stracchino abbondante che fuoriesce nel commovente passaggio di “Pane e Stracchino”, così l’anima dell’autrice esonda dalle pagine di questo splendido scorcio sulla vita e sulla morte, sulle stelle e sullo sterco, sulle ombre e sui silenzi che adornano il sublime dipanarsi così apparentemente casuale, tanto devastante a tratti, da far erompere un pianto, un grido – lancinante come quello che salì alto fino al cielo stellato nella notte di “Sorrento” – da quegli stessi silenzi in cui pochi anni, forse pochi istanti, forse poche righe prima si era forse rassegnata a rifugiarsi la piccola Giulia. Ora vittima, ora forse carnefice, ma di cosa? Dei suoi stessi brandelli di esistenza che, come in un tormentato e madido, convulso incalzare notturno di sonno e di veglia in quella che gli Esseni definiscono “Notte oscura dell’anima”, riemergono dalla magnificente scrittura di Chiara Mutti. Quasi un reflusso, un rigurgito di anime non salve, parafrasando il Maestro Faber “Fabrizio De Andrè” (vengono citati nel testo anche scampoli di canzoni pop tra cui la “Pablo” di un altro Maestro, Francesco De Gregori). O forse una Giulia vittima/carnefice, inconsapevole, e a volte magari suo malgrado complice di quelle nuvole e di quelle teste nella carlinga dell’aereo che sembrano farsi beffe, così cangianti, così anonime, indifferenti, della sua tragicamente affilata sensibilità? Sarebbe riuscita forse lei a spiccare voli ancora più maestosi di quell’aereo o corse più sfrenate del mesto clang clang di quel treno, entrambi così perfettamente descritti nelle pagine iniziali, senza il peso delle sue ali chiuse, invischiate, martoriate dal dolore, dalla violenza, fosse anche “solo” psicologica, da quelle assenze che le danzano intorno mentre, seduta su quel muretto, scorcio finale della narrazione, si appresta a dare il definito “Amen” a tutti i sensi di colpa, di rifiuto, e anche alle delusioni, alla rabbia coltivata nel suo cuore come quei bruchi dentro al pezzo di carne in congelatore? E non è forse quel suo estremo, liberatorio, catartico–cristico addirittura,potremmo forse dire– “Amen” (Padre perdonali perché non sanno quello che fanno!), a liberare definitivamente Giulia (come fanno intendere con lo straordinario acume che è loro proprio, Marco Onofrio e Dante Maffìa, le due prestigiose firme rispettivamente della prefazione e della postfazione) da quel “tanto di tutto e di niente” che la stessa autrice ipotizzi ora Giulia sia diventata, dopo aver vissuto in “Amen”?Non sono paradossalmente proprio le minuscole alette finalmente spuntate nel gelo di un freezer, nel ventre di un macabro pezzo di carne, sul dorso di un infinitesimo, microscopico bruchino, allevato per gioco, il più perfetto e supremo correlativo oggettivo di quell’“Amen”?

 

Chiara Mutti è riuscita a far entrare la VITA nelle ottanta pagine di un libro che misura 12x19 cm, ed è riuscita a far entrare le ottanta pagine di un libro che misura 12x19 cm in una parola. Un titolo. Un titolo che con un gioco di parole potremmo definire Titolo Totale. Quattro lettere di una potenza infinita. La potenza di una rassegnazione costruttiva, della saggezza zen dell’Uomo che è capace di costruire la propria rivalsa, il proprio riscatto con la stessa forza che l’avversario voleva scagliare contro di lui, rivoltandola sottosopra, disinnescandone il potenziale malevolo e facendone la base del palazzo di cristallo di una nuova vita. Quella Luce scintillante di chi non ha più vincoli col buio né vicoli malfamati di odio e rammarico, nella topografia del proprio essere profondo, nella città interiore di se stessi. È l’Amen di chi ha saputo restare neutro, sovrastando il malevolo approccio di quel collega che sottrae perfino la sedia a Giulia per impedirle di inserirsi nel nuovo ufficio, condannandola forse a girovagare ancora per infiniti colloqui e ulteriori posti di lavoro, oltre ai tanti già conosciuti, vissuti, rifiutati e lasciati alle spalle. Quella capacità è la stessa che permette all’agricoltore di caricarsi una sporta di letame addirittura gioendo del suo fetore immondo, non perché il suo olfatto sia indurito dall’abitudine, ma perché la sua conoscenza perfetta di come collocare quel materiale organico disgustoso gli permette già di assaporare, in quello stesso tanfo, la golosa fragranza degli spaghetti al pomodoro che saranno presto ricavati dal grano, che quello stesso ammasso di sterco contribuirà in maniera determinante a far germogliare, spiccando balzi ogni giorno più arditi verso il sole di luglio e verso gli infiniti cieli stellati di campagne libere. Libere dalle convenzioni, dagli abbandoni, dalle grida, dalle armi, dalle aziende, dalle cravatte, dalle falsità, dalla corruzione, dalle metro piene zeppe di corpi ammassati e sudati, gabbie di animi infelici che rincorrono, tragicomicamente legati a un guinzaglio chiamato “stipendio”, la follia di una vita che è solo perpetrazione cieca di processi organici.

Così sia.Amen.

 

 

Valerio Mattei

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