Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici. Poemetto. Prefazione di Alessandro De Santis, FusibiliaLibri 2020
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Con un preludio che inserisce la raccolta in una cornice di ascolto e di
accoglienza, le venti composizioni del poemetto di Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici
(Prefazione di Alessandro De Santis, FusibiliaLibri 2020, in
un’edizione impreziosita dalla grafica e dalla cura editoriale di Dona
Amati), dispiega e sviluppa temi e itinerari di una scrittura che
colpisce per la profondità nella leggerezza.
Mobilità nell’attesa, nella fuga e nel ritorno, nella fuga che è –
paradosso potentissimo e centrale – ritorno, e già la quarta tappa del
poemetto lo dichiara nei tre versi conclusivi:
– un ritorno
ogni fuga è un ritorno
uno squarcio che slabbra la piaga.
È una poesia che «benedice la
sottrazione/ l’insegnamento della leggerezza», ma – si badi bene – non è
certo una poesia ingenua. I richiami, ovvero, come li definisce
Cristina Polli nei Ringraziamenti, gli incontri, le letture e
le riletture, le crepe, i varchi, le sedimentazioni, le soste, si
collegano in una rete fitta, popolano un «giardino di pietra», popolano
sponde e marosi, cosicché l’invito iniziale, «Vieni quando le tamerici
sono in fiore» fa risuonare la forza di persuasione e concretizza la
promessa di accesso a un mondo di simboli, così come abbiamo imparato a
conoscerle nelle battute iniziali di uno dei componimenti più incisivi
del simbolismo europeo: «Vieni al parco sepolto nel letargo/ e vedi: il
riso di lontane spiagge/ l’azzurro delle pure nubi irraggia/ repente i
laghi e ogni striato varco.» (Stefan George, komm in den totgesagten park und schau, traduzione di Leone Traverso).
Un parco, un giardino di pietra, che custodisce e rivela ogni
sgretolarsi, che, anzi, dello sgretolarsi fa elemento di congiunzione,
sporgenza e anello tra un passaggio e l’altro del poemetto.
«Sgretolarsi» è un processo al quale sovente fa riferimento la poesia di
Cristina Polli, come testimoniato dalla sua precedente raccolta, Tutto e ogni singola cosa;
è, inoltre, un verbo che si affianca agli altri, numerosi, che indicano
movimento e trasformazione: rotolare, frangersi, affilare, strappare,
sfibrare, slabbrare, scavare, dismettere, disintegrarsi. Sono verbi
pronunciati per «marcare il momento», per la precisione uno di quei
momenti introdotti dal preludio al quale si accennava in apertura, il
brano da La donna giusta di Sándor Márai: «Nella vita ci sono
momenti del genere, in cui si prova una sorta di vertigine e si vede
tutto con assoluta lucidità: si riscoprono energie e potenzialità
nascoste e si comprende perché si è stati troppo codardi o troppo
deboli. E sono i momenti in cui la nostra vita cambia. Arrivano
all’improvviso, come la morte o una conversione».
Per poter cogliere appieno questi momenti, è necessario disporsi
all’ascolto. Non stupisce allora che un’altra categoria di verbi
scandisca i testi di Quando fioriscono le tamerici, e sono
verbi all’imperativo, esortazioni che seguono il «Vieni» iniziale: abbi
cura, custodisci, riconosci, ascolta. Sono esortazioni che precedono il
«Vieni» conclusivo, ripresa del motivo iniziale e vero e proprio motivo
conduttore del poemetto.
Sarà allora che si potrà scorgere e udire come «parla il bianco/ col
bianco della spuma e del ritorno». Parole chiare, parole «pure e
originarie», «parole-corolle», come scriveva Cristina Campo in Parco dei cervi.[1]
In quel momento sarà percepibile la voce di «lei»: anima, come nella poesia Scrivendo di
Marie Luise Kaschnitz, della quale viene riportato un passaggio
all’inizio del poemetto, alter ego che passa oltre «La disapprovazione/
incisa sulla pelle», che «ascolta e tesse nodi/ lega suoni per una
partitura». Dalla disgregazione alla tessitura, al riannodare i fili,
l’itinerario coinvolge e prosegue o, per ricorrere ancora a Marie Luise
Kaschnitz di Scrivendo, «Lei, data per persa, passa avanti e canta».
«Il percorso poetico, il viaggio stagionale, l’avventura sensoriale», di
cui scrive Alessandro De Santis nella puntuale prefazione, segna due
tappe importanti, entrambe collegate a piante, la prima con le tamerici
del componimento iniziale e di quello conclusivo, la seconda con la
«poseidonia», detta anche “l’erba del mare”. Le tamerici e la
poseidonia, piante che l’immaginario universale ricollega agli aggettivi
umile, dimesso, si caricano nel poemetto di un significato ampio,
quello di essenze con un tratto distintivo che le rende uniche, vale a
dire la capacità di evocare e far risuonare quel «riflesso interno delle
voci» restituito con delicata tenacia dai versi di Cristina Polli.
©Anna Maria Curci
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