Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio. Lettura di Cristina Polli

 

Il codino di Münchhausen. Una lettura di Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo

Scrivendo di Breve storia del mio silenzio, Marsilio 2019, non correrò il rischio di rivelarne la conclusione: è la stessa  quarta di copertina  a metterci al corrente del destino del protagonista. Giuseppe Lupo è docente di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia, giornalista e scrittore pluripremiato. L’opera rientra nel genere delle autobiografie romanzate, che, con maggior precisione, dovrebbero essere definite rivisitate. Ho intenzione di percorrere il testo tracciando dei solchi, intersecando temi e parole chiave a partire da alcune marcature rese esplicitamente evidenti e altre che hanno attratto la mia attenzione. “Si comincia sempre dai nomi, ragionava mio padre rivolgendosi a mia madre,  i nomi sono tutto” (p.83): qui i genitori, entrambi maestri, sono nel pieno della loro attività pedagogica, pedagogia che prosegue nella quotidianità della famiglia e segna la formazione dell’autore. Nomi, tracce, sguardi, percorsi, ma anche conflitti: nodi e traiettorie che tengono insieme il testo.
In Breve storia del mio silenzio Giuseppe Lupo ripercorre la sua formazione di scrittore. Tutto sembra avere inizio nello sforzo di superare un trauma infantile, un episodio di mutismo provocato dalla nascita della sorella, evento vissuto come una minaccia alle sue sicurezze di bambino. Da qui pare delinearsi una attenzione precoce ai segni che costituiscono una prima astrazione delle esperienze e attribuiscono loro un significato. È un percorso a ritroso, una ricomposizione della memoria, sicuramente una mediazione che mostra in qualità di forme compiute e intellegibili pensieri e sensazioni del suo processo evolutivo, un saper dire che non si attiene ai confini del linguaggio infantile ancorato ai nomi degli oggetti esperiti e, allo stesso tempo, elevato a metafora. Ma qui ogni cosa, posta sotto la lente della scrittura, diventa cristallina, si avvicina al lettore talora rinfrescata da un’ariosa ironia come nel brano a pagina 29:

Le cose purtroppo non andarono secondo i piani e il contrattempo obbligò i miei genitori a rivedere la strategia per guarirmi, a cercare la soluzione in una formula che mio padre recitava la mattina in cucina, mentre riscaldava il latte e preparava le caffettiere: «Nihil est in intellectu
Cosa volesse dire non potevo saperlo, ma certo in quell’affermazione filosofica doveva esserci il segreto della colazione, qualcosa che sarebbe entrato dentro di me attraverso il nihil misterioso e solenne, simile a una nuova vita oltre il silenzio. Io non so se fu davvero grazie al nihil comparso improvvisamente sulla bocca di mio padre, ma una mattina, appena dopo l’Ascensione, trovai mia madre seduta sul divano-letto ad attendere il mio risveglio.
«Stanotte c’è stata tormenta.»  Prese tempo prima di aggiungere: «È piovuto, ha tirato vento, si sono mosse le tegole, hanno ballato i vetri e tu hai parlato nel sonno», e aspettò che io fossi ancora più presente. «Proprio così: spedito come un treno.»
Ero troppo confuso in quel momento e continuavo a tenere la bocca chiusa. Mia madre volle togliermi dall’imbarazzo e allungò una mano per accarezzarmi i capelli: «Adesso hai bisogno di forza.»
Uscì di casa, tornò con un pacchetto avvolto in un giornale e si chiuse in cucina con mio padre a preparare la colazione. Il nihil cominciava a fari strada dentro di me. Non era Tommaso d’Aquino e nemmeno Leibniz. Era l’uovo sbattuto.

Tra le varie letture alle quali il libro si presta, mi sembra coerente cogliere l’invito a seguire la  falsariga del romanzo di formazione, lo svolgersi di una vita segnata da tappe che prendono significato nel riferimento a valori, principi, idee e vicende coeve con cui si confrontano.

La lettura continua su Poetarum Silva

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