A proposito de L’ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie
di Patrizia Sardisco
Things fall apart; the centre cannot hold
William Butler Yeats
È inutile, per quanto abbia provato a
scavare, temo che non mi riesca di ricordare dove e quando io abbia
letto per la prima volta il suo nome sul web. Ciò che però posso
affermare con certezza è che scoprire Chimamanda Ngozi Adichie
è stata la rivelazione di un intero universo letterario che arriva come
una grande ricchezza senza che sia dato di poterne ringraziare il
benefattore.
Chimamanda Ngozi Adichie è una scrittrice che appartiene alla cosiddetta
terza generazione della letteratura nigeriana moderna in lingua
inglese, eppure è stato attraverso una conferenza TED che conta milioni
di visualizzazioni in tutto il mondo che la sua voce di intellettuale
impegnata – un velluto di ironica, femminile assertività – è arrivata
fino a me con la forza dell’Harmattan che frusta la sua Nigeria
postcoloniale e struggente.
Avrei scoperto ben presto che le sue conferenze TED rintracciabili sul
web in realtà sono due, entrambe trascritte e pubblicate anche in
Italia, da Einaudi: brevi ma, come si dice, fulminanti pamphlet che
fanno il punto sulle convinzioni della giovane autrice in tema di
disparità sociale e di genere, e contribuiscono a chiarire i temi
sottesi ai suoi romanzi: libri che ho deciso, dopo essermi procurata i
saggi, che avrei letto senza ulteriori indugi, tutti e in ordine di
uscita.
Anch’esso alle stampe, in Italia, per i tipi di Einaudi, e con la traduzione di Maria Giuseppina Cavallo, L’ibisco viola
ha visto la luce nel 2003 negli Stati Uniti. Chimamanda Ngozi Adichie,
nata nel 1977 a Abba e cresciuta nella città universitaria di Nsukka,
dove il padre insegnava Statistica e la madre ricopriva un incarico
manageriale, ha infatti completato i propri studi all’Università del
Connecticut con una laurea in Comunicazione e Scienze Politiche, cui
farà seguito, alla John Hopkins, un master in scrittura creativa e, a
Yale, un master in Studi Africani.
Accolto molto favorevolmente da una critica che è giunta a definire la
sua autrice come l’erede di Chinua Achebe, il padre della letteratura
nigeriana moderna in lingua inglese le cui opere vengono studiate nelle
scuole di tutto il continente africano, L’ibisco viola ha
ottenuto diversi riconoscimenti internazionali e ha consacrato
Chimamanda Ngozi Adichie come una tra le voci più autorevoli e
rappresentative di quella generazione di scrittori che non hanno mai
fatto esperienza personale del periodo coloniale ma nelle cui opere
risultano evidenti le tracce della storia più recente del proprio paese,
con le contraddizioni dolorose del postcolonialismo, con i conflitti
interni, la dittatura militare, la corruzione, la costante violazione
dei diritti, il cammino difficile verso la democrazia. Autori per cui
l’inglese è ormai quasi la sola lingua e nella cui scrittura è entrata
la globalizzazione, autori per i quali pertanto la ricerca di una
identità culturale non può non mettere al centro, tra le altre
preoccupazioni tematiche, anche questioni legate alla lingua stessa.
Queste doverose premesse, doverose perché mi auguro diano il loro
contributo all’accoglienza della complessità e a una più puntuale
precisazione dell’immagine opaca e monolitica che noi occidentali
abbiamo di un continente vastissimo e multiforme (penso a quante volte
senza accorgercene usiamo le parole “Africa” o “africano” come se ci
riferissimo a un’unica unità statale, politica e culturale), servono a
inquadrare L’ibisco viola nella temperie culturale che innerva
il romanzo e al tempo stesso nella misura dello sguardo con il quale
l’autrice narra la propria terra, la Nigeria, nel gioco figura-sfondo
della vicenda della giovane Kambili e della sua famiglia.
Affidando la voce narrante alla quindicenne protagonista, il libro è certamente un Bildungsroman:
è la storia di Kambili Achike e del doloroso percorso che porterà la
ragazza ad affrancarsi dal soffocante e violento sistema educativo del
padre, a trovare una propria identità separata dalla saturante volontà
paterna: a trovare una propria voce. Kambili infatti parla pochissimo,
con un tono troppo basso, spesso balbettando: tace, il più delle volte,
sentendo una bolla che le soffoca la gola; e quando infine parla le sue
parole cercano sempre di essere quelle che il padre si aspetta che lei
pronunci, quelle che si rammarica di non essere stata lei a dire quando
le ascolta nella voce della madre o del fratello che vivono la sua
stessa condizione di vessazione psicologica e di violenza fisica. Perché
L’ibisco viola è, innegabilmente, anche una storia di violenza
domestica, la storia di una famiglia in cui si vede la fede di un uomo,
Eugene, il padre di Kambili, trasformata in cieco fanatismo religioso.
Ossessionato dal peccato, dall’empietà che vede o crede di vedere in
ogni comportamento che appena si discosti da ciò che lui ritiene
rispettoso della volontà di Dio, Eugene esercita una continua violenza
psicologica e fisica su tutti i membri della sua famiglia, che sembrano
vivere continuamente con il fiato sospeso, temendo di dire o di fare
qualcosa che scateni la sua ira e quindi le sue impietose punizioni.
Eppure, fuori dalle silenziose mura domestiche, Eugene è un modello di
virtù. È un uomo molto ricco, possiede diverse fabbriche di dolciumi e
bibite, oltre che un giornale indipendente che guida con riconosciuti
integrità e coraggio, ma mette la propria ricchezza a disposizione del
prossimo: insieme alle innumerevoli iniziative benefiche cui partecipa o
che promuove, Eugene è omelora, cioè colui che lavora per la
propria comunità. Egli finanzia quasi da solo la chiesa che frequenta,
elargisce somme di denaro a chiunque venga a bussare alla sua porta,
purché non sia un pagano. In questo Eugene è inflessibile, al punto da
non permettere nemmeno al padre, che non ha mai inteso convertirsi al
cattolicesimo, di mettere piede in casa sua né di frequentare i nipoti.
Sarà solo in seguito all’intervento dell’umunna, la famiglia
allargata cui il vecchio nonno si è rivolto, che Eugene permetterà ai
suoi figli di andare a trovarlo per pochi minuti in occasione del
Natale, quando tutta la famiglia va a risiedere per un paio di settimane
all’anno ad Abba, il villaggio di provenienza della famiglia paterna
dove il vecchio Papa Nnukwo continua a vivere compiendo gli stessi gesti
e gli stessi riti dei suoi avi. Sotto questo aspetto, L’ibisco viola
è quindi anche la narrazione delle trasformazioni inesorabili che
interessano un microcosmo familiare. È il crollo e il frantumarsi di un
sistema familiare malato nel quale, tuttavia, possiamo avvertire l’eco
dei ben più fragorosi crolli di un paese, di una società, quale è quella
della Nigeria postcoloniale, minacciata dalla instabilità politica,
dalla violenza, dalla corruzione, dalle differenti istanze religiose,
sempre sull’orlo di un colpo di stato.
Uso non casualmente la parola crollo. Così come non casualmente la troviamo nell’incipit del romanzo...
Per leggere l'intero articolo:
https://poetarumsilva.com/2020/07/07/chimamanda-ngozi-adichie-libisco-viola-sardisco/
L'incontro dedicato alla discussione su questo libro si è svolto il 31 maggio 2020
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