Lo spettro del visibile. Corpo, cosmo e segno nella raccolta di Patrizia Sardisco.
Pubblicata precedentemene su Poeti del Parco
Poesia culla xenofila (p. 18): prendo in prestito le parole di Patrizia Sardisco, per avvicinarmi alla sua ultima raccolta, Lo spettro del visibile, prefazione di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine 2021 nella collana Aperilibri che si distingue nella sua nuova veste con la pregevole copertina a colori. Culla xenofila dice in modo inequivocabile l’attenzione, la cura, l’attesa, dedicate con amore all’Altro, allo straniero, ma anche a ciò che è alieno al cerchio della nostra visione, ciò che si pone ai margini del visibile, o rischia di sgretolarsi nel dialogo perché non resta nelle coordinate di comune riferimento. Realtà convenzionalmente chiuse nei limiti di una grammatica, o in uno spettro, sono oggetto dell’attenzione della poetessa che ne lascia emergere la presenza nello spazio del quotidiano. La parola poetica diventa sguardo e ascolto devoto intrecciati all’attesa operosa, alla ricerca inesausta e mai paga che forgia il verso lasciando sulla mano del poeta i segni del lavoro. Esperienza totale e totalizzante è la poesia di Patrizia Sardisco, non lascia scampo (p. 18):
le musiche pazienti non dileguano
l’acqua è un subliminale risorgente
è tutta corpo, dispersa potenziale
di sé impregnata da sé assorbita
traguarda dalle penne lacerate
bianchi i balani e in altre concrezioni
polimeri di zuccheri e salino
la linea alba ha già segnato un arco sulle note
l’arcotangente agli orizzonti futuribili
è tutta mente, fruibili domani tutti i limiti
stringere oggi le movenze ai versi
e dentro un cristallino molle incandescente
soffiare dalla canna
affinare l’arcata dell’ampolla
l’acqua è in un momento del suo ciclo
culla xenofila la musica in attesa
La lingua di questa raccolta, ventinove poesie, ma di alto peso specifico, è riconoscimento, nominazione, scavo, accostamento, rispecchiamento, sfaccettatura, avventura, azzardo e fede. Il suono si fa significato, gli scarti del significante segnano svolte semantiche, aprono soglie e dischiudono visioni di realtà prossime tralasciate dallo sguardo; voce e pensiero indicano la luce bianca dell’indicibile, circoscrivono l’orrido della mancanza e lo traducono nella coscienza di luce insita nell’esplosione primigenia, smarrimento e vertigine rispecchiati nell’incommensurabilità del pensiero-cosmo e decantati nell’ampolla del verso. La lingua è grazia, voce che si fa luogo (p. 17): muta non ha dimora la memoria, se è voce dica/ siamo soli al principio/ sciami di neve e polvere, visibili/ nei segmenti più caudali e già compiuti
È una poesia complessa che si piega e dispiega in dimensioni inedite, calibra il suo ardire nello spazio simbolico e astratto dei segni della fisica e della matematica, della biologia e della neurologia e qui, nel simbolico, nell’universale, radica il seme del dialogo: il lessico è creatore e creazione, germina nei suoni e nei ritmi accordati, o dissonanti alla voce, assembla concrezioni, more, gestazioni inaspettate e attese, convergenze caleidoscopiche e distanze siderali (p. 8)
[...]
da un desiderio amodale di tangenza
gli orridi ci attraggono negli scoscendimenti
[della gola
il vuoto immisurato tra le tonde
dilata le onde della luce
a principio di mondi
e ogni nominazione dell’intorno
è l’audacia
di non gettare troppo in basso l’occhio
Ma se la scrittura ambisce a farsi segno, gesto di appropriazione, ecco che la realtà si manifesta cosmica, ancestrale, molteplice e poliedrica, irridendo l’aspirazione al rigore della perfezione, al sistema di costrutti congelati nell’astrazione, e richiamando l’uomo alla sua essenza, al corpo che concretamente si fa traccia, divergenza e origine di incontro, fiorire affilato di tagli che rivelano rifrazioni di luce e richiamano il ritorno alle acque primordiali, prenatali (p. 21):
quando aspiriamo al rigore dei cristalli
ci alita in faccia il ghiaccio
dall’etimo dell’acqua
le parentele alchemiche
di certi calchi arcaici subcorticali
più congeniali ai reticoli le mani, pontefici
di gitto getterebbero spalle campata e luce
ma i piedi, per istintuali attacco e fuga,
dai piedi si prolungano
lamine affilatissime
e in fuga per inciso sul ghiaccio si propagano
onde di onde centrifughe e rotanti
intorno a un baricentro eccentrico
verso un intorno d’aria che non bruci e non geli
una zona abitabile circumstellare
La parola è un rischio, il valico è vocalico (p. 9), ferma l’ondeggiare dello spettro, paralizza il dilagare della luce, ma la parola è anche salto, tuffo e volo nella differenza, luce sulla scoperta. Se lo spettro è mare chiuso, mare nostro, acqua di cui lo sguardo si appropria, la parola può limitarsi a nominarlo o può diventare un atto di coraggio, indicare altre visioni dove l’umano trova il luogo del suo compiersi, farsi arco morale, arcotangente al vero. Dovere della poesia è intonare il canto, l’intonazione esige l’affinamento della voce e l’estensione dello spettro dell’ascolto, affinare l’arco dell’ampolla, accogliendo le risonanze delle voci. Il gesto del significante diventa significato, è salto, taglio, sacrificio, forgiatura che agisce sul poeta, e che allude alla presa in carico, alla decisione, al rischio di dichiarare una coscienza (p. 24):
sembra vuoto ma è materia mobile
il lume tra tutto questo
andare e il mio restare
muta in sostanza, dico
qui riconosco un guado, ve lo mostro
ma non si guarda, non si sente un ponte
lo si passa
E su questo ponte, culla xenofila che nasce da un moto intimamente connesso all’Amore per l’altro, il capovolgimento che, qui e in altri luoghi, schiude un’altra prospettiva, su questo attraversamento immerso nel respiro, è possibile lasciarsi prendere per mano e comprendere un altro linguaggio.
Cristina Polli
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