Riprendo alcuni versi molto cari ad Anna Maria Curci, autrice della curatissima e ispirata Prefazione a Tutto e ogni singola cosa
di Cristina Polli (EdiLet, 2017; Postfazione a cura di Marco Onofrio),
versi nei quali Rose Ausländer pone la parola come luogo, come terra nel
cui tessuto materno stabilire la propria patria: «La mia patria è
morta/ l’hanno sepolta/ nel fuoco// Io vivo/ nella mia madreterra/ la
parola» (traduzione di Anna Maria Curci).
Riprendo questi versi per sostenere l’ipotesi che se davvero la parola
può essere eletta a patria da parte di un poeta, la sua poesia allora
può esserne la casa, l’abitazione, dimora-monumento nella costruzione e
decostruzione operata da logos e pathos per sinergie e per scontri, per attriti e per nuove ricomposizioni.
«Genero metafore di pietra» è il verso con cui ci viene incontro il
libro di Cristina Polli, un verso (una poesia!) di austera, imponente
bellezza, dal cui peso e dal cui vincolo sarà impossibile sottrarsi,
tutta l’opera ne è percorsa come da un’eco argentea e tagliente. Chiave
ermeneutica delle pagine a venire, questo primo componimento-pietra
sostanzia “a spigolo vivo” le fondamenta e il perimetro della
fortezza-poesia, lo svettare delle sue pareti ripide e inespugnabili, la
sua essenza di nucleo fortificato e fatalmente protetto entro cui poter
prendere sicura dimora e del quale poter decidere i gradi di pervietà.
Parole come “roccaforti”, “torre d’avorio”, “fortezza”, “arroccata”,
squadrano da ogni lato, nel volgere di pochi versi, una costruzione
poetica che non lascia spazio ad equivoci quanto a fattura e
destinazione d’uso.
In questa fortezza, «In un tempo sospeso sull’essere/ la poesia accorda il suo suono».
In questo arrocco, da questo riparo, provveduto a «deporre/ le armi del giorno», la voce poetica potrà lavorare sui nodi di ore e dolori, e levare il suo “canto di perdono”.
Dalle ringhiere/balaustre di questa “torre d’avorio”, l’io poetico potrà
esporsi alle interrogazioni dei marosi che recano “echi di
schiume/lontane” riaffioranti, di “notturne voci d’eterno sciabordio”.
Guadagnata altezza e distanza, lo sguardo potrà sorvolare l’abisso e
spingersi “oltre”: l’occorrenza di quest’avverbio/preposizione,
utilizzato anche nella sua forma sostantivata, autorizza a ipotizzare
un’aspirazione di superamento, un profondo desiderio (ricorrenti e
ritmanti sono i “vorrei” e gli “ho bisogno”) di oltre-passare una
condizione di blocco legata a una separazione che ha pietrificato l’io lirico, condannandolo, si direbbe, a una generatività a sua volta litica:
ecco dunque che quell’altura e quella roccaforte, dalle quali osservare
«l’orizzonte che si compie da solo» come un destino, sembrano
configurare una Stonehenge del teatro interno e della voce, un
“incavo d’aria” silenzioso in cui la “luce incunea l’oscurità”, in un
respiro di pieno e di vuoto da cui si vedono una spiaggia deserta e, più
in là, un mare di metallo. È uno spazio sacrale, sacrificale, che lo
stesso io lirico sembra aver concorso a creare, un circolo di pietre
inespugnabile, ineffabile, misterico... la lettura continua su Poetarum Silva
C’è sempre una quarta dimensione, è quella che si guadagna cambiando punto di vista, disponendosi all’ascolto, al dialogo, de-centrandosi e accettando l’avventura della de-stabilizzazione. Accedervi significa valicare frontiere e attraversare nuovi territori con mente, cuore ed esperienza. In questo blog si parla di poesia, letteratura, filosofia, arte: tutte le forme in cui l’essere umano esprime la capacità di simboleggiare l’esperienza, crearla e darle ulteriori significati.
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