Campi


Pubblicato su "Le voci della Luna" N. 74, p .63

La luce come materia in “Quasi radiante” di Martina Campi.
L’ultima raccolta di Martina Campi, Quasi radiante, Tempo al Libro, 2019 richiama alla bellezza della cura  attraverso l’indagine della parola poetica e dei suoi nessi con l’io e il mondo. Ne risulta una lettura costantemente e necessariamente in fieri, non risolta, che si muove e sosta attorno ad alcuni nuclei che si agglomerano percorrendo il testo.
L’opera è strutturata in cinque sezioni, di cui la prima contiene una sola prosa poetica, mentre le altre sono composte di poesie e prose che si alternano con un ritmo regolare: per tre volte a una terna di poesie segue una prosa. La terza terna di ogni sezione è in carattere corsivo.
Fin dalla prima poesia si annunciano il corpo e il linguaggio come centri che esercitano forze di vario grado e genere nell’interazione con altri oggetti poetici (p.19): 

Io l’attendevo la pioggia purché facesse

da sé tutto il nero scompiglio

di cielo severo, pomeriggio inflessibile

lucido viscerale e disperato,

per i fondi bucati nelle giacche,

gli aggettivi, eccetera

ossa, che avevano gettato la spugna.

Le cose sembrano disporsi in una geometria di corrispondenze minacciata e allo stesso tempo affidata al nero scompiglio che squassa i legami esistenti perché sia dato luogo ad altro. Il nero scompiglio annuncia, per contrasto, uno dei file rouge che attraversano la raccolta: la ricerca e la resa della luce.
Luce e parola intessono la prosa a pagina 29. Il vento astrae il tu, con cui vanamente interloquisce l’io poetico, e lo immerge nell’isolamento di una luce bianca e abbacinante dove la parola pare rovesciarsi in cosa, diventare evidenza, prova, di un legame sperato e disperato: “… sento passarti accanto il silenzio gelato dei ghiacciai sterminati, scintillanti come fucine di diamanti sotto il sole, che ti farebbero urlare a squarciagola per sentirti parlare almeno una parola.”
Nella mancanza di un linguaggio che crei l’unità con l’altro, ma anche l’unità dell’io, si realizza una conoscenza che dilata e compenetra la consapevolezza del qui ed ora, lo spazio di un essere e di un percepire che travalica sensi e oggetti e diviene abito dell’intenzione poetica, un sentire e un dire adiacenti il corpo, il cammino, ciò che afferisce al corpo. Leggiamo (p.26):

Ho dormito settimane per tornare simulata,

pallida mimesi a distanza

infinita, simulacro del divenire

corpo trapiantato fuso alla voce

e nulla da dichiarare, se non la candeggina.

Da questo sentire e da questo dire si irraggia, mutando il centro o il punto di fuoco, ogni manifestazione, visione e assorbimento della luce. Una rivelazione “quasi radiante”, che misura un eccesso o un difetto ponendo il vertice al centro di una circonferenza che a volte è l’io, o il corpo, altre è l’ambiente, soprattutto la città con la sua periferia e le linee di attraversamento disegnate dal fiume e dalle strade.
Più volte la luce appare in antitesi con il buio o l’ombra. In un punto particolare luce e buio sono entrambi  soggetti agenti e rivelatori: “fa luce, fa notte, fa essere quello che c’è.” (p. 35). In seguito il contrasto torna drammaticamente in scena: il sole è una luce feroce che procede nel suo irresistibile irradiarsi richiamato dalle allitterazioni: “ma tutto taceva nell’attesa/ di irradiarsi deflorando ogni riparo oscuro,/ o disgregarsi, decostruito come una macchina.” (p.61)
La luce e il suo contrario, che sia ombra o buio, vengono accostati a parole quali “deserto”, “polvere”, “sabbia” per dirne alcune: che niente sanno/ del buio e del deserto (p.31, testo in corsivo); “I raggi li soffiava il vento rotolando/ vetri per la via, sollevava/ la polvere e accarezzava/” (p.40); “si alzava la sabbia ma io non c’ero/ sotto la sfrontatezza del sole” (p. 86)
Sembra così manifestarsi il desiderio di pervenire a quella materialità che è necessaria alla conoscenza per appropriazione: la percezione corporea -  tattile oltre che visiva - fa anche della pelle, come del passo, occhio sul mondo, frontiera osmotica tra il dentro e il fuori.
La luce fievole del crepuscolo si frantuma come oggetto tangibile nei frammenti delle pietre ai lati del sentiero per realizzare, nel cammino e nel momento, una sintonia tra l’attraversamento e l’ascesa di cui è specchio il brillio (p. 65): 

Ascolta. Sui lati dei passi

la pietra mormorava bisbigli ai ciottoli,

frammenti di pietra costeggiavano

il sentiero conosciuto, brillando come stelle

il momento del giorno, che divenne sera.

Nella controluce del pomeriggio si atomizza la luminosità diffusa e quasi palpabile del pulviscolo (p. 46): 

Le vie sembravano dissolversi

nel pulviscolo tra città e pomeriggio

divenire un miraggio metropolitano

intessuto nell’indistinto

cielo dischiuso appena in vertici

cerulei, sporgevano luci

in solitario movimento.

Tutto sembra salire e muoversi in forma di luce in una confluenza dello spazio tempo che si incunea nella scelta della consapevolezza: la poesia è forma di luce e forma di conoscenza in cui lo scambio di flussi tra il mondo e il sé si sviscera nel qui e ora riconoscendo, ascoltando e accogliendo le reciproche visioni e tangibilità, oltre le armonie confortanti.

Cristina Polli







                                                                                                              

Nessun commento:

Posta un commento