Cristina Polli, Quando fioriscono le tamerici (rec. di Mara Venuto)
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La delicata veste grafica di Quando fioriscono le tamerici di Cristina Polli
(FusibiliaLibri), un’edizione curatissima ed esteticamente pregevole,
può trarre in inganno. La prevalenza del bianco e dei toni pastello, i
piccoli fiori sbozzati in copertina, evocano un lirismo formale e un
contenuto romantico in realtà assenti nelle poesie di Cristina Polli. Si
tratta, a ben guardare, della prima epidermica sensazione sconfessata
dalla lettura di questo poemetto, evocativo quanto resistente a ogni
banale inquadramento.
Le stesse tamerici del titolo, arbusto fra i meno decorativi, con foglie
a squame ruvide e irte, si scoprono capaci di una metamorfosi assoluta,
in grazia e bellezza, nella stagione della fioritura, quando i rami
penduli si rivestono di piccoli fiori dal bianco al rosato, che vanno a
formare una nuvola ornamentale. Il poemetto di Cristina Polli sembra
seguire un analogo movimento di ribaltamento dell’apparente: nello
specifico, ciò che resta della parola poetica cesellata, complessa,
rigorosa, è una spoliazione necessaria, che rimanda all’essenza di
significati esistenziali profondi.
I versi sono pesati fino alla nudità, non una sola parola in eccesso,
nessuna caduta nell’autocompiacimento, c’è una nitida fiducia nel mezzo
poetico e nella propria padronanza dello stesso, e nessun bisogno di
dimostrare alcunché. Il libro vuol essere, e di fatto diventa, un dono,
una condivisione di rimandi sensoriali e concezioni intimiste, lontani
dall’autobiografismo e dunque più immediatamente universali.
Protagonista dell’universo evocato da Cristina Polli, naturalistico e
libero dalla materia, è “Lei”: la maiuscola è scelta in segno di
rispetto, di omaggio al sacro, perché Lei è l’anima, che eterna “passa avanti e canta”,
come l’autrice chiarisce, citando nel primo verso una poesia di Marie
Luise Kaschnitz, tradotta da Anna Maria Curci. L’anima che non può
essere salvata scrivendo, perché la parola poetica non è mai
auto-terapeutica, pur nel dolore e nella necessità; al contrario è
speranza, dono a un qualsivoglia destinatario sconosciuto, perché possa
trarne – chissà – una fioritura.
In alcuni componimenti appare una scelta necessaria la frattura di
contenuto e forma, come in una lotta convinta contro ogni possibile
inquadramento iniziale immodificabile:
Si dilegua l’eco dei marosi
affiorano altri accenti
nella stanza inquieta
le luci sulla scena
danno ombra ad altre voci
ai toni dismessi di parole
rotolate via.
Dirompe squassa pietra scoglio frase. Lei. Lei resta.
Ecco che sono nuovamente scosse le prime impressioni: la costruzione immaginifica, soffusa, onirica, quasi idealistica, è schiaffeggiata dal verso di chiusura in cui l’architettura, la frammentazione della parola e anche della punteggiatura, l’isolare significanti, riportano la coscienza all’essenza, allo stato primordiale mai quieto. Nella certezza che il percorso umano non possa prescindere dal ritorno al principio originario, alla verità del sé, al vuoto fertile.
Sgretolati.
Occultati dal moto sinuoso
bianca spuma che sabbia li riduce
e sabbia sperde.
Graffio e luce tagliano la silice.
Erano due una e l’altra madrefiglia figliamadre. La ripetizione dello strappo.
Cristina Polli effonde visioni in cui
predomina il bianco, il colore della generosità, che puro si offre a
ogni scrittura e ogni tono. Anche laddove la lingua si fa tagliente,
impeccabile, inflessibile, richiama questo processo di risveglio
naturale: l’anima e la poesia come siamesi nello stesso grembo seguono
la vocazione alla rigenerazione, un richiamo all’ascolto, al dono
nell’attesa.
Allitterazioni, apocope, neologismi sincratici, tutto appare funzionale a
una chiara esigenza ritmale: i venti componimenti del poemetto
risuonano come una partitura accordata ad arte, sembra quasi di
ascoltare da un promontorio a picco sul mare, dove fioriscono le
tamerici, la voce di un canto ancestrale che accompagna dal grembo ai
fossi, con la sapienza della natura e dell’anima che non temono nessuna
fine, mentre «raccolgono i bisbigli e parla il bianco/ col bianco della
spuma e del ritorno».
© Mara Venuto
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