Recensione di Marco Onofrio

“Tutto e ogni singola cosa”, di Cristina Polli, letto da Marco Onofrio

 precedentemente in nel cielo stellato , poi edito in Marco Onofrio, Le ali della terra. Altre poetesse italiane fuori dal coro, Edilet 2021

Un personaggio de La Peste di Camus, di nome Grand, sta tentando di scrivere un romanzo e, per questo, combatte un estenuante “corpo a corpo” con la resistenza delle parole all’assoluto espressivo che egli, come ogni scrittore consapevole, tenta disperatamente e spesso inutilmente di conseguire. Quelle parole, e non altre, per dire esattamente, con precisione vivida e perfetta, ciò che si intende esprimere. Tanto che a un certo punto Grand dice a un altro personaggio, Rieux, che gli dà dei consigli utili: “ci siete voi, fortunatamente. Ma vedete com’è difficile?” Ebbene, la poesia accentua a dismisura questa difficoltà dello scrivere, proprio nella sua dimensione di “quintessenza della lingua”. Poesia non è gettare parole a vanvera o andare a capo come càpita, ma arrivare alle radici dell’essere per abitare il linguaggio, e viceversa. Se il linguaggio è, come è, la “casa dell’essere”, chi – come il poeta – mette a sua volta casa nel linguaggio, diventandovi endogeno sino a farsene consustanziale, a non potersene più distinguere o dividere, permette al linguaggio stesso di veicolare l’epifania dell’essere, cioè di sprigionare il segreto della sua remota e inquietante alterità. Per questo la poesia appare spesso ostica, oscura, intraducibile: il più straniero dei linguaggi porti all’uomo con le sue stesse, riconoscibili parole. Anche quando ci riguarda, quando parla di noi: quando dice il respiro, il battito del cuore e il suono misterioso della mente, articolando la nostra più intima misura, come il discorso più proprio e profondo che siamo, e che abbiamo. Perché è un terreno di confine, di rischiosa interminabile ricerca, dove la lingua si rinnova da se stessa, carica di potenzialità, agglutinandosi nella densità originaria della propria essenza.

Cristina Polli, nel suo bellissimo esordio in volume (Tutto e ogni singola cosa, EdiLet, 2017, Euro 10), conferma questa forza specifica dell’espressione poetica non solo per gli esiti convincenti che raggiunge, con mano già sicura, versificando la musica del pensiero grazie a cui attinge alle ricchezze dei mondi interiori, preziosamente stratificate al senso, ma proprio dichiarando la consapevole volontà di “abitare la parola” per collocarsi nella condizione più favorevole al miracolo dell’arte.

VORREI ABITARE LA PAROLA

Vorrei abitare la parola
riposta tra il sonno e la veglia.
Vorrei che un tremore verde-oro
rimasse con tratti di strada
immaginati all’alba.
Vorrei intrecciare
volti rapiti d’incontri
al dileguarsi dei crepuscoli
confini di chiarori e notti scure.

È una poesia che si determina al confine tra ostensione e reticenza, come inseguendo una parola ultima che non riesce mai a dirsi ma che proprio in questo modo consente alle altre, per richiamo magnetico, di coagulare sulla pagina.

Nascosta è la parola che m’incanta
il lampo fulgido
che rischiara il campo.

Si legga, a ulteriore conferma, il finale di “Come in accordo”:

– e io divento un desiderio d’essere
ciascuno di quei mille riverberi di foglie
in una trinità di vento e luce –.

Se vento e luce sono due elementi, sia pure volatili leggeri evanescenti, qual è il terzo che li compone in trinità? lo spazio? il vuoto? l’essere del mondo elementare? Dio? l’io percepente? il sé trascendente? Ecco il meccanismo simbolico della poesia: evocare l’assenza e distendersi, pronunciando l’essere, attraverso il non detto: che poi spesso è l’indicibile. Cristina Polli ha talento nel percorrere queste vie interiori della pagina tracciate entro lo “spazio” astratto e astrale che aprono le parole: percepisce dunque con estrema sensibilità “il respiro tra le lettere” e “i ponti creati al passaggio / dei dittonghi” nell’equilibrio delicatissimo configurato dalla carica energetica dei suoni.

La domanda è una curvatura
del tempo onda concava a raccogliere
segni di infinito.

La poesia articola una dimensione spazio-temporale parallela e alternativa a quella dell’esperienza, ed è composta da elementi di una geometria che potremmo definire “metafisica”, su base astratta, e che si apre al concetto attraverso l’esplorazione vigile e insistita dei suoi cronotopi. Cristina Polli sente con grande intensità, ad esempio, il “vertice delle linee” e “l’abisso del punto”. Ecco l’importanza della soglia, il confine che (come accade sul bordo del gradino) trattiene lo spazio dalla sua caduta. La parola stessa è un confine che si oppone al Vuoto, cioè al destino inesorabile che congiura sopra e dentro l’esistenza delle cose. C’è una bocca d’ombra che tutto divora, sempre pronta ad aprirsi per ghermire gli esseri e poi mescolarli nell’“impastatrice” che li attende in fondo al vuoto. Ogni cosa segue la linea della sua dissolvenza, che la porta pian piano a sgretolarsi:

Polvere il mio respiro
polvere i giorni.

Ecco l’infinita vanità del tutto, e quindi la fatica inutile dell’esperienza rappresentata – per sempre e per ciascuno di noi – dal mito di Sisifo:

Noi, Sisifo assorto in trasporti di pietre
meditiamo
dolore
e ritardiamo l’Incontro.

La vita stessa è, a ben vedere, un esorcismo quotidiano dell’Incontro (con l’iniziale maiuscola). Ma la poesia vuole darsi come “canto del disapparire” e abitare l’assenza. L’assenza di ciò che non è più, come di ciò che non è ancora. E può farlo generando “metafore di pietra” da opporre all’erosione cosmica (penso ad un racconto di Patrick Süskind, dal titolo “Il testamento di Maître Mussard”, dove si parla di “conchillizzazione” come destino ultimo e fatale di tutte le cose esistenti):

Genero metafore di pietra
roccaforti a spigolo vivo, oltre
strali di parole che trapassano
come lame taglienti i miei pensieri –
residui di avidità – prigionieri
di una cupa estranea accidia.

Occorre combattere questa accidia per riuscire a “dire la parola / prima di essere sassi”; e se non sono sassi saranno granelli di silice, “cristalli di lucente splendore”, e sabbia, terriccio, polvere. E la lapide, che infine accoglie l’incisione sintetica del nostro passaggio sul pianeta. La poesia coincide, dunque, con un percorso ideale dello sguardo, oltre il colore del vuoto e il buio senza nome degli archetipi: nasce anzitutto dalla scelta di

Attraversare la trasparenza del vetro
ambire al vero
al bosco sognato
a far parte del bosco
a viverCi dentro.

La particella pronominale con la lettera maiuscola indica la dimensione profonda, sublime e ineffabile, su cui il poeta riesce forse a sintonizzarsi quando scrive l’essere, o meglio se ne lascia scrivere, traguardando la meta del suo cammino dentro la sacralità delle parole. La poesia modula “equilibri su polvere d’oro / di riverberi divini”: consente cioè di elevare, su tutto l’“arco di volo” del gabbiano, lo spazio infinito che le parole aprono “oltre la polvere del tempo”, cioè la dissolvenza delle cose. Consente dunque di assimilarsi alla fascinazione del mistero senza svelarlo o, peggio, risolverlo, col “divenire presente all’essenza / che apre l’attimo all’eterno” raggiungendo l’oltre dei gesti, degli sguardi, dei pensieri. Questa “coppa / d’ascolto” mesce “nettari di / sogni / e di visioni” che appaiono e scompaiono soprattutto nei riverberi del controcanto sotteso alla melodia di superficie. È proprio in questo silenzio-suono del “disapparire” che Cristina Polli intravede la possibilità di “raggiungere / l’ebbrezza” trovando il varco di liberazione dentro quell’impasto grigio di sogni e di attesa che forma l’esistenza, per cui la poesia stessa è “canto intonato tra le angustie” e, di per sé, gesto di rivolta e resistenza. Occorre trovare l’accordo con la risacca del mare cosmico, tra “respiro che si fa pensiero” e “pensiero che alita il respiro”: pensare l’aria e respirare il mondo. Imparare di nuovo a farlo: per accordare di nuovo il cuore (scordato strumento: Montale, “Corno inglese”) e oltrepassare il supplizio della disarmonia (Ungaretti, “I fiumi”) basta talvolta poco: anche “l’armonia trasparente dei calici / ordinati da una mano sulla tavola”. Il “varco”, infatti, si può spalancare fin nell’esistenza più ordinaria, guardando i bambini che giocano o vivendo la “piccola vita del pomeriggio”. La felicità possibile dipende forse dalla capacità di adattarsi alla realtà in continuo cambiamento: chi resiste alla metamorfosi, ne viene travolto e annientato. La via che la poesia mostra è quella organica: accordarsi al movimento della Vita. E in questo offre una via importante di riconciliazione, nella misura in cui si dispiega anche come “canto di perdono”, applicando i suoi unguenti lenitivi ed esercitando le sue arti di ricomposizione del dolore: ecco le parole “versate come sale sulle piaghe” e la scrittura come riva del naufragio e dell’approdo, a cui si giunge con la “piega dolceamara del ritorno”. Si avverte, nella poesia di Cristina Polli, una sensibile pulsione regressiva nutrita di nostalgia, cioè – etimologicamente – dolore del ritorno, rimpianto malinconico, struggimento, desiderio pungente e inappagabile. La parola oscilla tra una corrente di abbandono e una di resistenza, cioè tra l’oblio dell’“immemore fluire” che spinge, da un’origine occulta, tutte le cose del mondo, e una predisposizione lucida e attiva di supercoscienza, che cerca di estrarre il segreto dalle immagini apparenti. I “sedimenti di stanchezze trascinate” (ecco ancora Sisifo) vengono purificati dall’esorcismo della parola, che invoca riposo, serenità, “coltre d’oblio”. Dimenticare. Oltrepassare. Riconciliare.

Sia pace, non resa, l’offerta
che scioglie il laccio dei tempi,
il nodo dell’ora spietata
all’anima nuda d’appigli.

Ma la pace non è, appunto, “resa”: nasce cioè dalla giustizia tentata e compiuta, come potente rivendicazione di coscienza e conoscenza, e prorompente grido di liberazione umana – soprattutto dal versante femminile (si leggano poesie come “L’esilio di Eva” o “Dirti essere”) – con l’urgenza data dai tempi di decadenza morale che stiamo vivendo. La poesia è il gesto generativo che produce un “tempo sospeso sull’essere” di cui abbiamo estremo bisogno per riappropriarci di noi stessi. È lì che, tessendo “trame di seta” e camminando su “tele argentee di ragno”, si slancia con impeto di verità oltre il cuore della trasparenza. I luoghi (anche metaforici) della poesia sono “luoghi di ascolto e di memoria”. Più spesso la dimensione poetica è l’“ombraluce”: il paesaggio umbratile e sfumato, talora sognante, che sorge dall’indugio sulla soglia:

E tu non sai se è rugiada
a un dolore nascosto
o il varco di una nuova speranza.

E poi, quando meno ce lo si aspetta, può accadere di sprofondare nell’incanto, cioè nell’armonia labirintica e traslucida della visione: e il ponte levatoio magari lo danno le “piccole luci” in cui il poeta dolcemente si smarrisce, o il “desiderio d’essere / ciascuno di quei mille riverberi di foglie”, o i riflessi selenici che squamano “scintille su spicchi di mare”, o le “notturne voci d’eterno sciabordio”. È questo sprofondamento abissale nei dedali nascosti dell’esistenza – anche la più ordinaria – a produrre poesia come canto di accordo alla rerum natura, nell’incrocio di macrocosmo e microcosmo interrelati, in uno sguardo consapevole che appunto comprende “tutto e ogni singola cosa”, cioè il mare e ogni singola onda che lo compone, e ogni singola luce di ogni singola onda, etc. L’unità dell’infinitamente diverso e l’infinita diversità dell’uguale: è questo il dono etico della poesia di Cristina Polli, e il segno sicuro della sua sorprendente e ammirevole maturità.

Marco Onofrio

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