Ho concluso oggi
la lettura di Volevo tacere di Sándor
Márai, (Adelphi 2017, traduzione di Laura Sgarioto), diario e affresco della
vita ungherese nel decennio che precede e che segue il giorno dell’ingresso di
Hitler a Vienna. Márai scrive in maniera manifesta dal punto di vista della
classe a cui si onora di appartenere, la borghesia colta e illuminata preparata
a fare da battistrada all’emancipazione da anacronistiche forme feudali e a
cogliere, come emerge nei ritratti di alcuni suoi rappresentanti, i segni
inquietanti dei tempi narrati. È proprio l’inquietudine che serpeggia tra le
pagine il filo conduttore che si dispiega nello svolgersi delle vicende, l’ombra
che dà risalto a tutta la narrazione, che accompagna la sofferenza del ritorno
agognato e doloroso nella città natale
irriconoscibilmente consegnata al nazismo; l’ombra e che si fa da parte, ma non
si allontana nella resa dei lineamenti biografici e politici di István Bethlen.
Il pensiero è andato al protagonista di Le
braci, alle descrizioni agghiaccianti del corso del Danubio nelle pagine de
La donna giusta, ai cambiamenti di cui sono testimoni i
protagonisti degli altri romanzi letti. La speranza è sempre nella lettura
accorta di pagine che tengono a bada il tragico nella compostezza della forma,
capacità a cui ci dobbiamo rieducare: la lettura accorta come esercizio di
superamento della superficialità imperante; la compostezza della forma come scelta che
consente il distacco necessario a rielaborare la passione, cogliere i segni
degli eventi ed esercitare l’intelligenza del dialogo e del decentramento.
Di Volevo tacere parla anche Maurizio Ceccarani nel suo blog il gufo ignorante.
Nessun commento:
Posta un commento