Riprendo, dopo alcuni giorni di assenza il discorso sulla stanchezza, quanto mai attuale, con un salto rispetto all'articolo pubblicato sul blog di Filosofi per caso . Questa scelta è motivata da una sensazione di incongruenza che viene a crearsi tra i pensieri e le sensazioni che richiedono un loro tempo di rielaborazione e le esigenze pressanti del quotidiano. Il ritornello più sentito è “Non abbiamo tempo”.
Sì, non abbiamo tempo, dobbiamo produrre e, sottoposti a questo imperativo, reifichiamo ogni cosa. Anche le parole diventano comportamento e perdono il loro valore di simbolo e, con esso, la capacità di stabilire legami orizzontali e verticali, ma soprattutto la virtù creatrice che sta in ogni narrazione del mondo.
Presi nella rete - Persi nella rete.
La frequenza e l’incremento di parole e discorsi sovraccaricano la rete, sviluppano miliardi di sinapsi e propagano sistemi in cui ognuno di noi si trova irretito, esperendo, al di là della superficiale ebbrezza per la illusoria percezione di una amplificazione delle possibilità di azione, una difficoltà crescente di riconoscimento e determinazione della propria identità e del proprio ruolo, che proprio nell’azione acquisiscono riconoscibilità.
Nella rete facciamo esperienza di uno snervamento, un logoramento che ci intrappola e ci disorienta: siamo per natura sollecitati a rispondere, ma si insinua in noi una percezione di inefficacia, al meglio di blanda inutilità. L’insoddisfazione può condurci alla resa: ad una indifferenza che ci protegge dalla percezione di essere vani e sostituibili nella pletora di voci che quotidianamente esibiscono le loro verità nella rete. Essa può altresì provocare l’insorgere di un intorpidimento della coscienza, che ci alletta a gratificare la morale con poco sforzo. La stanchezza, allora, si riflette anche nei linguaggi, si manifesta nella banalizzazione dei termini e nella ripetitività dei discorsi, e, nel limitato novero di azioni possibili nella rete, si riproduce in atti che diffondono contenuti in maniera meccanica, con la possibilità di sottrarci alla fatica della conoscenza e all’approccio critico.
La capacità
di riflettere e di adottare un atteggiamento critico esiste e trova modo di
manifestarsi, ma lotta contro la ridondanza di un pensiero mediocre, qualificato
da una sorta di inabilità a proseguire oltre la superficie delle cose. La
ricerca spasmodica della soddisfazione edonistica rende
ipertrofica la necessità di soddisfare vari tipi di bisogni al di là di
quanto sia naturale ed equilibrato: ci troviamo immersi in pressanti
sollecitazioni al cambiamento, che ci lusingano promettendoci soddisfazioni
inarrivabili e risultati efficaci di azioni e comportamenti efficienti. In realtà ciò che si produce sono solo nuove
stanchezze, generate per incongruenza con le nostre reali aspirazioni e per la
forzatura che consegue all’operare senza aver potuto dedicare tempo alla
scelta.
La scelta è,
credo, la chiave che ci può consentire
di liberarci di queste nuove stanchezze, che sviliscono la nostra vocazione di
esseri umani chiamati a tendere ad una
espressione compiuta del sé.
Se alcune
delle stanchezze su cui si sofferma Handke nel suo saggio appaiono
desiderabili, è perché esse rappresentano l’approdo di una coscienza creatrice
purificata in cui
“… il mondo, in silenzio,
assolutamente senza parole, si racconta da sé, a me come al vicino spettatore
dai capelli grigi lì, alla splendida donna che passa ancheggiando là; tutto il
pacifico accadere era al contempo già racconto… “[1]
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