Ho iniziato
la lettura di questa silloge di Giovanni Luca Asmundo, Stanze d’isola, Oèdipus 2017 avvertendo in pieno lo sgomento del corifeo che prende atto di una
perdita, di non poter tornare indietro e, nello stesso tempo di dover svolgere
un atto solenne senza sentirsene degno: Dovevamo
recitare uno spettacolo/ ma abbiamo dimenticato di imparare la parte.
Il tempo
concesso è finito, o meglio il tempo è diventato un tempo altro e il ritorno
anelato, il compimento, è ormai una ferita, un futuro sognato e impossibile:
Non basta mescere vino e melodie/ non basta
un occhio sulla prora a far da casa (p.
14)
Il tempo, il
ritorno, il mare, la pietra: queste le apparenze che si muovono e si
contrastano sulla scena, incontrandosi o ignorandosi mentre la Storia si svolge
in un luogo che il presente mitico tiene al margine o è relegata in memorie che
il mare dilava (p. 11) :
Se l’acqua avrà disossato i ciottoli
custodi delle voci degli aedi
impresse spume, a cosa aggrapperemo
quel ritorno sulla rena e soffio
che è l’esile intento opposto al tempo
un destino comune patiremo
privato di memoria e di catarsi
fino al consumo di giorni caduti
Il mare.
Emblema dell’eterno variare, dell’eterna dispersione, dell’incomprensibilità. Un
mare che sovrasta e sottrae quello di Asmundo, sovrasta le voci degli aedi e
quelle del coro (p. 15) : ... parlava da solo/ fragore continuo (p.
34), oppure è il blu troppo aspro nel
mezzogiorno salso (31) che scrosta l’intonaco e le strade che voltano e
chiudono; il mare oltre le finestre vuote non visto e non compreso, ancorati a
un gesto che tiene saldi alla terra e
salva nella ripetizione: La sera, stavamo
alla finestra vuota/ mangiando pane e olive (p. 34)
Mare amaro,
mare amato in questi versi che incatenano al loro variare ondivago (p. 21):
E finì per assomigliare al mare
perché sempre ne aveva scrutato obliquamente
il senso, oltre il silenzio abbacinato
all’immagine
di creature mitiche coi capelli d’alga e di percorsi a spirale del
pensiero-conchiglia,
E finì
per assomigliare al mare
e al consumo dei giorni, incessante
e cangiante, oltre lo sguardo salato.
Ma cosa
somiglia al mare? La costituzione del poeta che sa di non potersi sottrarre
alla separazione perché sia vero il canto; l’isola a cui anela l’impossibile
ritorno, il ricongiungimento di cuore e corpo detto in apertura della silloge, con
un luogo che vive nel suo desiderio. Ma leggendo e rileggendo, ripetendo la
lettura come un’onda di risacca, ecco che appare la poesia stessa, nel corpo di
questi versi, a prendere le sembianze del mare.
Ed è il mare
il luogo necessario al periplo, il luogo che consacra l’isola e la pietra, i
boschi d’alloro, le querce, i fichi asciutti.
E come il
mare è aspro, salso, odiato, ma poi assorbito e amato nella sua presenza, così
la pietra è greve, stringente, erosa, sgretolata, solo per riprendere il posto
che le spetta nel momento in cui l’uomo si riconcilia con il tempo (p. 41):
Quando finimmo di lasciare indietro il tempo
scelte con peso le immagini più care
le rocche sgretolate ripresero vita
e si ersero alberi dalle ossa sfiorite
sentinelle al brulicare tra i sassi.
Tutte le cose trovarono posto
e su morbidi cuscini di pietra
fu dolce il sonno dei sogni
e il mare smise di disperdere
le spiagge di pomice.
Sarà la
notte a riconciliare la pietra e il tempo, il respiro dei cedri nell’epifania
di luna che lenisce il tenue frinire
dell’incompletezza (p. 37) vivificando le statue in un bacio che ne
rinfresca i polsi (stessa pagina), quasi
l’immagine di un quadro metafisico che, ritraendo lo sguardo di calcare
indifferente alle sorti degli umani (p. 30), lo pone a confine dei destini. Si
incarnano qui, nelle loro mimiche, il
vasaio, il venditore di fichi, il tranciatore di tonnina (p. 35), si ripercorre
il fregio degli uomini intenti alla raccolta dei rami nel bosco d’alloro per
celebrare la festa (p. 36), qui si aprono le vuote finestre nel cui vano
scorgiamo la ripetizione di un gesto quotidiano quale può essere mangiare pane
e olive (p. 34).
La pietra
nelle sue diverse accezioni: colonna, muro, selciato selvatico, luogo di
memoria, rintocco del tempo, testimone di tragedia nel ricordo del sisma del
Belice (p. 25). la pietra che registra nel mito i segni della storia, storia
piccola, dispersa e quotidiana che si affatica e si artiglia alle poche
certezze: quel vaso di basilico
appoggiato in balcone (p. 19) e le ombre dei ritorni aggrappate […] ai quattro muri, schiacciate/ su croste
e conchiglie (p. 27).
Le rovine si
compenetrano della vegetazione, una compenetrazione che parla della nostra
identità, del nostro senso del tempo e dell’appartenenza. [1]; le colonne doriche divorate dagli ulivi (p.
15) e poi (p.40):
Resti di muri rosi da lumache
si ricongiungono ai cumuli di pietra
e sparsi ossi di pecora.
E infine il
bianco calcare, divenuto cenere, che anche i Ciclopi sono costretti ad
abbandonare, prendendo, inesperti e impacciati, il mare, tra le urla delle capre e le loro lacrime
cispose: un esodo che accomuna uomini e giganti (p. 43), un desiderio di
ritorno che rende sacra l’isola e pone ogni elemento nel tempo immutabile che
resterà Quando avremo finito di
dimenticarci di noi stessi (p.10)
resteranno soltanto le pietre
restituite alle pietre.
Resteranno le querce immortali
sullo sfondo del bianco più solenne.
Il ronzio dell’ape insistente
nella calura che schiaccia.
E sciare nere che scivolano in mare
franando, di tanto in tanto.
La silloge cita
nei titoli delle prime tre poesie e dell’ultima i momenti assegnati al coro
nella tragedia greca e viene naturale immaginarne la recitazione affidata a un
coro di voci, a una pluralità che si riconosce in questo dire comune.
Calata nel tempo
della sua recitazione, la voce non permanente, che si impasta col fragore del
mare e risuona nei passi che calcano i selciati “serpigni”, nelle voci plurime
di uomini e di antiche presenze in teatri, templi e mercati, viene assorbita e
si fa traccia nell’ascolto, stratigrafia nella memoria e in questa
orchestrazione viene reso intellegibile il silenzio, voce di un tempo altro,
immortale e immobile di cui parlano il bianco solenne delle pietre e lo sguardo
di calcare. Con questo tempo sullo sfondo, non solo il ritorno, ma anche il
compimento è relegato in un eterno futuro prossimo che separa e consacra.
Cristina
Polli
[1]
Ripercorrendo i sentieri della mia memoria sono approdata a un paio di pagine
del Diario di Repubblica dell’11 novembre 2011, Rovine. Il sottotitolo è emblematico e preoccupante: I simboli della nostra civiltà che rischiano
di diventare macerie. A parlare di rovine troviamo Salvatore Settis, Georg
Simmel, Marc Augè, e tanti suggerimenti di lettura in due pagine dense e solide
da tenere come aggancio ad una dedizione all’appartenenza che possa
riconciliarci nell’offerta e nella custodia di cultura e natura. Qui le pagine citate.
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